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Adekanye: «Alla Lazio sto bene, stavamo raggiungendo qualcosa di bello»
Bobby Adekanye, giovane attaccante della Lazio, ha ripercorso tutta la sua carriera in una diretta Instagram: ecco le sue parole
È la mascotte della Lazio. Amato dai tifosi e sostenuto dallo spogliatoio: Bobby Adekanye non vede l’ora di tornare sul campo. Il giovane attaccante è stato la guest star della diretta Instagram di Global Performance Sport: «Sono due mesi che siamo chiusi in casa senza fare nulla. È un po’ difficile. Non ci hanno detto ancora nulla, credo che nella prossima settimana ci diranno qualcosa, anche quando fare il test. Se tutto andrà bene, inizieremo ad allenarci. Credo che se tutti i giocatori saranno negativi, allora riconceremo davvero. Speriamo di tornare, eravamo molto vicini al raggiungimento di qualcosa di bello».
ALBORI – «Ho iniziato in Olanda nella squadra del mio paese, ho giocato solo sei mesi lì. Da piccolo ero innamorato dell’Ajax. A febbraio feci un provino con loro, quel giorno era il mio giorno. Mi riuscì tutto. Ho fatto cinque allenamenti, io ne feci solo uno e mi dissero che ero interessati. Non ci potevo credere, i miei genitori mi stavano aspettando quando ero di ritorno dalla scuola. Nella comunicazione c’era scritto che non sarei dovuto più venire agli altri allenamenti. Poi andai al Barcellona, ho avuto dei problemi con la FIFA, dovevo tornare in Olanda. PSV, Liverpool, sono stati quattro anni. Ora sono nella Lazio, sto bene».
CRESCITA – «Per me è sempre stato chiaro il fatto che sarei voluto diventare un calciatore. Partecipai a un torneo chiamato ‘Mundialito’ in Portogallo con l’Ajax, parteciparono tantissime ottime squadre. Ero abituato a giocare solamente contro squadre olandesi. Arrivammo in finale, lo stadio era pieno. Sentii qualcosa di speciale, pensai che potevo davvero andare avanti nel calcio. Avevo dieci o undici anni, era calcio a 7. Fui il miglior giocatore del torneo. Dovevo cambiare la mia passione nel mio lavoro. Avevo un film nella mia testa, non sapevo concretamente cosa fare. Quando stavo nel Liverpool, invece, il calcio era diverso, duro. Mi sono detto che avrei dovuto cambiare qualcosa, altrimenti non sarei arrivato fin qui. Se cambierei qualcosa? No, nulla».
SQUADRA – «È più difficile mantenersi a certi livelli, piuttosto che arrivare. Con il talento puoi diventare un calciatore, ma poi deve competere con altri, che hanno il tuo stesso talento magari e che lottano per il tuo stesso obiettivo. Il mio segreto? No, non ho, forse la mia famiglia. Mi hanno sempre seguito, mi hanno permesso di non cambiare mai, come persona. Ho la fortuna di avere un agente che mi segue da quando ero piccolo, è come se fosse uno di famiglia. Nelle giovanili l’obiettivo era quello di essere il migliore della tua squadra, magari per farti vedere. Ora lo scopo è di squadra. Anche adesso che sono nella Lazio, prima di giocare ci diciamo che non importa il modo, bisogna vincere».
ALTI E BASSI – «Quando sono arrivato al Liverpool, furono mesi complicati. All’inizio ho dovuto aspettare dei documenti, poi mi sono fatto male. Ho pensato che non avrei continuato a giocare al calcio, che volevo tornare in Olanda. Non volevo andare agli allenamenti, neanche svegliarmi. Mi chiudevo in casa e mi mettevo a piangere. Il mio agente mi rincuorava, mi diceva che tutto sarebbe andato bene. Senza lui e l’appoggio dei miei genitori, probabilmente me ne sarei andato. Un consiglio ai più giovani? Divertirsi, fare tutto con allegria, altrimenti le cose si complicano. Avere un idolo e guardare a come è arrivato al proprio obiettivo. Non imitarlo, perché tutti siamo diversi, ma vedere cosa questa persona ha fatto per arrivare dove è arrivata. Il mio è stato Robben, notavo anche come parlava, come si comportava con i giornalisti, davanti alla televisione».
RAMADAN – «È il mio terzo anno, prima ero cristiano. Tutti i miei amici lo fanno, e ha avuto ai miei occhi sempre qualcosa di speciale. Tutti sono allegri, gentili, dando soldi ai poveri. Mi piace moltissimo questo mese. Cerco di adattarlo agli allenamenti, quando ho bisogno di bere, lo faccio. Ho avuto un mental coach, e non lo farei un’altra volta. I consigli di Junior (Minguella, ndr) e i miei genitori erano sufficienti. Se hai un insieme di persone che ti vogliono bene, non hai bisogno di mental coach o altre figure».