2015

Arrivederci Ledesma: ragazzino divenuto guerriero con in testa e nel cuore la (sua) Lazio

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‘’Vamos, vamos!’’ urla Benitez, un connubio di ansia ed agitazione. San Paolo di fuoco, il Napoli attacca e la Lazio si difende. Il risultato è sul 2-2. La Champions è ad un passo ma rischia di sfumare. Tanti, troppi gli anni senza quella musica in tre lingue. Un’eternità. “Che ne sanno loro…”. Cristian se lo ripete all’infinito. Era un ragazzino quando ascoltò l’inno per la prima volta nel 2007, adesso è diventato un uomo e ha un dovere da compiere: portare i suoi ragazzi in Europa. Maglia numero 24, personalità, non più titolare ma sempre laziale. Forse per sempre, anche quando se ne andrà. Poi all’improvviso un contropiede, Cristian la passa filtrante per Onazi. Gol. Lazio in Champions League. La musica ritorna, l’inno rimbomba nelle orecchie. Dopo 7 anni la Lazio è di nuovo tra le grandi d’Europa. Poi un sorriso, quasi melanconico. E un altro assist per la testa di Klose. Stavolta sì, si può chiudere davvero. Cala il sipario. Arrivederci Cristian.

Cuore d’oro, animo generoso, piedi raffinati. Cristian Ledesma non è mai stato il campione capace di risolvere la partita con una giocata, ma nel corso di questi 9 anni alla Lazio si è affatto apprezzare per qualità umane senza precedenti. Mai una parola di troppo, mai un gesto di stizza, mai un rimprovero per un compagno. In prima linea a fianco della moglie Marta per aiutare la piccola Giorgia, vittima di una rara malattia cellulare. Un esempio per tutti. Il primo a concedere autografi ai tifosi, l’ultimo ad abbandonare il campo d’allenamento dopo la partitella del giovedì. E le responsabilità? “Colpa mia mister”. Regista, mediano. Quella zolla davanti alla difesa è sempre stata sua, fin da quando esordì in Coppa Italia nella vittoria contro il Rende. Tecnicamente affidabile, tatticamente una sicurezza. Sempre lì, nel mezzo. Poi tante emozioni, una sfilza di sussulti. Ledesma ha rappresentato l’anti-divo per antonomasia, lontano dai riflettori del successo. Preferiva far parlare il campo e spesso ci riusciva. Il gol al derby al primo squillo? Indimenticabile, un siluro da 30 metri. Senza dimenticare le due Coppe Italia alzate al cielo (più la Supercoppa contro l’Inter da separato in casa). Senza contare il record: settimo giocatore per numero di presenze nella storia della Lazio.

Quando sbarcò a Roma nel 2006 – fortemente voluto da mister Delio Rossi – non era assolutamente a conoscenza del concetto di ‘lazialità’. Cresciuto in Patagonia, svezzato dal Lecce. Che ne poteva sapere? Ma oggi, 318 partite dopo, ne è diventato un simbolo. Lavoro di squadra, saper soffrire insieme e reagire, fare gruppo. Risorgere dalle ceneri per restare sempre in vita. Ancor più forte. Tornato dopo le incomprensioni con la società, nel giro di tre anni si è ripreso la Lazio vincendo il trofeo più importante, la Coppa Italia contro la Roma. Oggi saluta dopo aver fatto il suo dovere. Brividi forti durante la sfida all’Olimpico contro il Real, squilli di tromba dritti al cuore. Ma prima di chiudere un ciclo ha voluto lasciare il testimone al suo degno erede. Non serve capire bene i contesti, basta un’istantanea: Ledesma al fianco di un ragazzino del ’94. Faccia da putto, lacrime agli occhi, i due si abbracciano. Un po’ come un padre che consola il figlio dopo aver perso una finale. “Vedrai passerà tutto, ci rifaremo…”. Il passato che abbraccia il presente. Ledesma dice addio. E soprattutto, tra raccomandazioni e pacche sulla spalla, lascia la squadra in buone mani. Perché quel ragazzino a centrocampo gioca molto bene, ha la sua stessa voglia, indossa la 32. Si chiama Danilo Cataldi. Ma questa è un’altra storia. Ciao Cristian. 

 

gianlucadimarzio.com

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