2014

Cantare l’inno e attaccare: la sfida vincente di Pioli

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L’immagine seriosa contrasta con la sfida folle che ha accettato. Perché dev’essere un po’ pazzo, Stefano Pioli, per fare una scelta così rivoluzionaria: imporre un gioco d’attacco e spettacolare, quindi rischiosissimo, in un ambiente che senza risultati ti contesta. È la conseguenza di questa antipatia generalizzata nei confronti di Lotito: se la Lazio non vince, subito l’aria diventa pesante, la protesta finisce per condizionare la squadra e tutto diventa più difficile. In una situazione del genere, di solito un allenatore si rifugia nel “Rejalismo”, insomma prima ci difendiamo e portiamo a casa i punti, poi magari in assoluta serenità si può rischiare qualcosa. Pioli invece no, lui ha provato a rivoluzionare se stesso — «È bravo a organizzare la fase difensiva», dicevano a Bologna — e la Lazio: 4-3-3 aggressivo, pressing alto, recupero immediato e feroce del pallone, attaccare sempre e non mollare mai. Quando riesce, è uno spettacolo che fa innamorare. Alla Lazio finora è riuscito, così Pioli sta realizzando il miracolo: i tifosi sono tornati allo stadio, si divertono, applaudono, escono dall’Olimpico addirittura sorridendo. Lui, Pioli, invece sorride poco. Non concede cali di tensione, né a se stesso né alla squadra. Attraverso colloqui individuali convince i suoi uomini che questa è la strada giusta e bisogna continuare a percorrerla senza paura. Fa lo psicologo, il tecnico emiliano, sa motivare il gruppo. «Quando arrivai a Bologna ero sconcertato perché di Pioli mi parlavano bene anche quelli che non giocavano», il ricordo significativo dell’ex allievo Mudingayi. Ieri le sue urla durante l’allenamento si sentivano da lontanissimo: guai sentirsi sazi per le quattro vittorie consecutive, basta poco per tornare all’inferno. Così domani sera a Verona vuole guidare la squadra al quinto successo, come Reja nell’ottobre 2010: allora sì, il terzo posto non sarebbe solo un sogno rivoluzionario. E ci sarebbe più gusto a cantare tra un allenamento e l’altro gli inni della Lazio, altra particolarità del nuovo corso: «È una cosa — racconta — che facciamo per noi, perché abbiamo due inni di una bellezza incredibile che trasmettono valori: certe frasi fanno capire cosa vuol dire essere laziali. Io e i miei giocatori stiamo bene insieme, il gruppo è rimasto unito anche quando abbiamo perso». Già, perché la rivoluzione ha rischiato il fallimento dopo le beffe con Genoa e Udinese, ma la Lazio di Pioli ha saputo rialzarsi subito: dai quattro gol di Palermo non si è fermata più, corre a perdifiato che pure ai tifosi manca il respiro e il cuore fa salti strani, ma il meccanismo funziona. Funziona, anche, guardare dritto negli occhi i suoi giocatori e dire la verità, senza fare promesse che non si possono mantenere. Senza illudere chi non giocherà ma che magari può essere utile lo stesso. Chiedendo a tutti il massimo sforzo per realizzare il sogno Champions, certo, ma soprattutto perché è troppo bello vedere la gente che lascia lo stadio con quel sorriso lì.

Fonte: Repubblica 

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