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Inzaghi: «C’è la Lazio nel mio destino, ormai sono un tifoso». E sul Napoli…
La lunga intervista a Simone Inzaghi, allenatore della Lazio. Il tecnico ha parlato del rapporto con la famiglia, del periodo al Piacenza e delle vittorie con i biancocelesti. Ha elogiato Nedved e Mancini, poi però un ringraziamento alla sua squadra e allo staff
Chi ad inizio stagione non è rimasto deluso dalla scelta di confermare Simone Inzaghi sulla panchina della Lazio scagli la prima pietra. Questa mezza citazione è perfetta per ricordare lo scettiscismo che in estate aleggiava sulla figura del tecnico piacentino, dopo la delusione per il rifiuto di Marcelo Bielsa. Oggi però Inzaghino è osannato, proprio da chi borbottava fino a otto mesi fa, ha realizzato un capolavoro. E non solo per il successo nel derby di Coppa Italia, ma per il lavoro che sta svolgendo con la squadra e coi giovani. Una vita spesa per i colori biancocelesti, una maglia che da vent’anni sente cucita addosso, di seguito l’intervista concessa alle colonne del Corriere dello Sport:
Come ha cominciato a giocare a calcio da bambino?
«Ho cominciato a San Nicolò, nel paese dove siamo nati mio fratello ed io. Paese dove tuttora abitano i miei genitori. San Nicolò è una cittadina a cinque chilometri da Piacenza, settemila abitanti. Giocavamo sempre a calcio. Abbiamo cominciato lì. Poi, facendo i campionati pulcini, ci videro squadre come Milan, Inter, Atalanta che erano più blasonate del Piacenza, erano squadre di serie A. Noi potevamo andare lì o potevamo andare a Piacenza che all’epoca, come purtroppo è adesso, era in serie C. Ma, per non allontanarci da casa e da papà e mamma, abbiamo preferito andare a giocare nel Piacenza, convinti che poi le nostre qualità sarebbero potute uscire anche giocando lì e non solo nelle grandi squadre. E così è stato».
Stavate in stanza insieme lei e Filippo?
«Sì, quando eravamo piccoli, eravamo in stanza insieme, naturalmente avevamo i due nostri lettini. Poi quando siamo cresciuti, arrivati a quattordici anni, ognuno ha avuto la propria stanza. Però fino a dieci dodici anni abbiamo sempre dormito insieme. Mi ricordo che avevamo un poster con me e mio fratello e il centravanti del Piacenza di quell’epoca, che si chiamava Mulinacci. Per noi era il massimo, la domenica, andare a vedere il Piacenza quando giocava in casa».
Di che squadra eravate lei e Filippo?
«Noi eravamo pazzi per il Piacenza però c’era nostro padre che era milanista e simpatizzavamo Milan. Ma la cosa che ci interessava di più era il Piacenza».
Suo padre veniva a vedere le sue partite da giocatore o poi da allenatore?
«Mio padre non ne ha persa una, né mia né di mio fratello. Si faceva in quattro per non scontentare nessuno. Fortunatamente, avendo due anni e mezzo di differenza, capitava tante volte che io giocassi il sabato e mio fratello la domenica. Con mamma sono sempre i nostri primi tifosi. Vengono alle partite ma non più assiduamente come prima, perché c’è stato un episodio che li ha colpiti. Sempre nello stesso luogo, ci siamo infortunati, in partite diverse, sia io che mio fratello. Lui in una semifinale di Champions con la Juve contro il Monaco con un intervento di Diawara del Monaco, gli misero ventisei punti al labbro. E io due anni dopo, sempre a Montecarlo, con la Lazio, quando vincemmo la Supercoppa d’Europa. Vedere tutti e due i figli, a distanza di due anni, portati via con l’ambulanza per loro è stato molto duro. Quella coincidenza li ha segnati e da quella volta vengono molto meno a vederci allo stadio».
Lei da calciatore ha fatto tanta gavetta, questa è una delle ragioni del successo?
«Sì, l’ho fatta è mi è servita tanto. Poi per me, ogni calciatore ha un suo destino segnato. Chissà magari anche tutti questi ragazzi che ho fatto esordire io: Murgia, Lombardi, Strakosha, Rossi avranno un futuro bellissimo. Io li conoscevo da sotto, dalla Primavera, e quindi forse loro hanno avuto la fortuna, tra virgolette, di trovare me. Lo dico sempre: non gli ho regalato nulla, se le sono meritate, queste belle soddisfazioni. Se io all’epoca avessi trovato un allenatore che, magari a diciassette anni, mi avesse lanciato subito, probabilmente non avrei fatto quei tre quattro anni in giro per l Italia che però, alla fine, mi sono serviti molto».
Poi lei va in serie A al Piacenza e quell’anno fa sedici gol.
«Sì, vado a Piacenza e trovo un allenatore come Materazzi, al quale sarò sempre grato, perché è stata la persona, a livello calcistico, che mi ha aiutato di più. Ero partito in ritiro con una squadra, il Piacenza, che era in serie A. Il mio curriculum diceva che avevo fatto dieci gol nel Brescello in serie C ma questo mi collocava come come quinta punta. Avevo davanti a me Rizzitelli che arrivava dal Bayern Monaco, Dionigi che aveva vinto in serie B, Piovani, Scoppa. Tanti giocatori davanti, però feci un ritiro bellissimo».
Si ricorda il giorno dell’esordio in A?
«Venne Materazzi in camera e bussò alla porta. Le panchine erano più corte, all’epoca, si andava in diciotto e pensavo venisse a dirmi che, probabilmente, sarei andato in tribuna. Invece mi disse che c’era da giocare titolare contro la Lazio. Arrivava la Lazio di Nedeved e Salas e compagnia bella… Insomma mi disse che dovevo giocare titolare. La partita finì 1 a 1 con un mio gol al novantesimo a Marchegiani e da lì cominciò tutto. Giocai tutto il campionato. Su trenta partite ne saltai due per squalifica e due per infortunio. Le giocai tutte, feci quindici gol e l’anno dopo il mio primo campionato in A mi acquistò la Lazio».
Quindi la Lazio è, in qualche modo, sempre nel suo destino?
«Sì, la Lazio è nel mio destino. L’esordio in serie A contro di lei e poi nel ’99 arrivo e vinciamo subito Supercoppa europea, Coppa Italia e campionato. Facciamo un triplete storico e da lì è cominciata la mia cavalcata a livello calcistico. Probabilmente avrei fatto la mia carriera ugualmente, però senza il coraggio di Materazzi secondo me sarebbe stata più dura».
Quella Lazio lì era fortissima.
«La mia era fortissima, completa, con tantissimi campioni e il primo anno vincemmo tre competizioni. E in Coppa Campioni, senza quella malaugurata partita di Valencia, dove perdemmo all’andata 5 a 2, secondo me avremmo potuto andare oltre i quarti di finale, perché avevamo una squadra profondamente unita e di grande qualità tecnica. Quella Lazio era piena di giocatori di grandissima personalità. Per questo vinse tanto».
Chi è il giocatore più forte con cui ha giocato?
«Sicuramente Nedved, perché era un grandissimo professionista. Il primo anno ho fatto sette gol in campionato, nove in Champions e tre in Coppa Italia. Ho fatto diciannove gol stagionali e Pavel mi ha aiutato tantissimo. E’ stato un grande giocatore ed è una grande persona. L’ho apprezzato molto come uomo, perché allenandomi e giocando con lui, ho capito che puoi avere tantissime doti tecniche o fisiche ma l’allenamento è la prima cosa, la più importante. Pavel era il primo ad arrivare e sempre l’ultimo ad andare via da Formello. Penso, in due anni e mezzo di Lazio, di averlo visto andare due volte in centro a Roma. Per lui esisteva il campo e lì dava tutto».
Invece quello più forte che lei ha allenato fino ad adesso?
«Più forte? Ne ho tanti. Giocatori giovani, di bella prospettiva, che secondo me possono diventare dei grandissimi. Stanno facendo una stagione straordinaria. Se proprio devo dire un nome, farei quello di Biglia che è il mio capitano ed è un giocatore per me imprescindibile. L’anno scorso, nelle sette partite della mia gestione, mi sono convinto che la mia Lazio dovesse ripartire con Biglia. Perché è un giocatore che in quel ruolo, in questo momento, in Italia e in Europa secondo me non ha eguali».
Perché secondo lei sta sparendo la figura del regista nel calcio, tipo Biglia?
«A volte anche per esigenze tattiche. Nel calcio moderno si può giocare con un play alla Biglia o alla Pirlo ma ci sono delle partite in cui noi giochiamo con i due mediani. Con l’Argentina lui gioca da mezz’ala, lo dico per far capire che tipo di giocatore maturo è. Non è un play classico, è un top player che, in mezzo al campo, può fare qualsiasi cosa».
Chi è l’allenatore da cui lei ha imparato di più?
«Io ho cercato di prendere da tutti, perché sono stati tutti importanti per la mia formazione. Partendo da Materazzi, passando per Eriksson, arrivando a Mancini. Altra persona che devo ringraziare, perché mi ha voluto a tutti i costi alla Lazio. Da giocatore è capitato anche di farci qualche giorno di vacanza insieme, poi è diventato il mio allenatore, tuttora ci sentiamo e abbiamo una grandissima stima reciproca. Poi l’ho avuto come allenatore, secondo me bravissimo, dopo Eriksson. Pure gli ultimi che ho incontrato insomma, passando per lo stesso Delio Rossi che mi ha insegnato molto. Ho cercato di prendere il meglio da tutti e poi, però, cerco di metterci del mio».
Quando lei è subentrato a Pioli, il primo giorno che ha visto i ragazzi che cosa gli ha detto?
«Ho detto loro che i derby è capitato anche a me di perderli. Il famoso 5 a 1, con i quattro gol di Montella. Pioli fu esonerato dopo una sconfitta molto brutta e io ho detto alla squadra che dovevamo reagire, che avevamo le ultime sette partite, che dovevamo cercare di dare un senso al campionato. I ragazzi mi hanno seguito alla lettera. Abbiamo fatto un finale di stagione, l’anno scorso, molto importante ed è per quello che volevo continuare in questo ruolo, perché sapevo che i ragazzi mi avrebbero seguito anche quest’anno. Lo sentivo».
Lei, dopo la scelta di Bielsa, sarebbe stato assegnato alla Salernitana. Invece?
«Invece si vede che tutti abbiamo un nostro destino assegnato e così ci sono stati problemi con Bielsa e a quel punto, come era giusto, mi hanno richiamato. Probabilmente qualcun altro avrebbe storto il naso, si sarebbe risentito, avrebbe detto no, avrebbe detto “mi è stata tolta un po’ di leadership”, avrebbe rifiutato di passare come seconda scelta. Però sapevo che la mia leadership, quella che contava, l’avrei potuta riconquistare con la gente a suon di risultati. E, per la squadra, sapevo che con i miei giocatori, nonostante fossi una scelta tra virgolette di ripiego, la leadership non l’avrei mai persa. Perché sapevo che i ragazzi mi avrebbero riaccolto a braccia aperte. E così è stato».
Lei ha un buon rapporto con i ragazzi vero?
«Io sì, cerco di avere un rapporto sincero, schietto. Ho la fortuna di avere giocatori come Radu, che ha giocato con me, che cercano di aiutarmi. E poi parlo di Marchetti, di Biglia, di Parolo, di Lulic. Parlo di quelli più anziani che so che mi aiutano tantissimo».
Che sensazione ha provato nel superare la Roma nella semifinale di Coppa Italia? «Avendo giocato tantissimi derby so cosa vuol dire per la nostra gente. Eravamo coscienti della difficoltà perché sulla carta, guardando i budget e i fatturati, non ci dovrebbe essere partita con la Roma. Però sapevo che facendo la nostra partita gagliarda, aggressiva, avremmo avuto grosse chance. Poi dopo la partita di andata le mie speranze sono aumentate. Alla vigilia sapevo che c’era qualche rischio, perché abbiamo visto grandissime squadre subire rimonte pazzesche. Ma vedevo la squadra concentrata, che mi seguiva. A parte i primi dieci minuti in cui eravamo un po’ contratti, la mia sensazione, dalla panchina, era che la finale l’avremmo centrata. E’ un risultato straordinario: abbiamo eliminato Inter e Roma con le quali, per dimensione dei bilanci, non dovrebbe esserci partita. Ma abbiamo dimostrato che con la determinazione e l’umiltà si possono fare grandi cose».
Dove può arrivare questa Lazio?
«Noi vogliamo ragionare partita per partita. Abbiamo fatto grandi cose, e martedì abbiamo fatto un’impresa che abbiamo voluto condividere alla fine, sotto la curva, con la nostra gente. Ma penso anche che avere sessanta punti in campionato sia qualcosa di straordinario. Ma non siamo appagati. Sappiamo che abbiamo otto partite di campionato, avremo la finale di Coppa Italia e quindi dovremo cercare di fare tutto nel migliore dei modi, perché vogliamo dare seguito a due mesi importanti, dopo questi primi otto di lavoro che sono stati eccezionali. Siamo quarti in classifica, ce lo siamo meritati, nessuno ci ha regalato niente, adesso avremo le ultime partite. Dobbiamo cercare di ottenere il massimo».
Immobile come ha fatto a rigenerarlo?
«Immobile si è rigenerato da solo, dal primo giorno che è arrivato. Mi ha colpito per come si è allenato, per lo spirito e la disponibilità a sacrificarsi che ci ha messo. Ho voluto molto che lui fosse con noi. Dopo pochi giorni ho capito, da come si allenava, che avrebbe fatto un bel campionato. Nella mia testa non sapevo dire se avrebbe fatto dieci, quindici, venticinque gol. Sapevo che avevamo indovinato l’acquisto, per la determinazione che ci avrebbe dato e perché dentro il campo è un trascinatore».
Se batte il Napoli è immaginabile l’obiettivo Champions?
«Confrontando i budget non ci dovrebbe essere partita. Però abbiamo dimostrato che possiamo giocarcela contro tutti. E’ normale che quelle davanti a noi sono delle corazzate costruite per fare la Champions. Ma in questo campionato basta una partita vinta o persa, un passo falso e tutto si può riaprire. Noi dobbiamo ragionare partita per partita: se ci metteremo la testa, il fisico, l’intelligenza e la determinazione nulla deve essere considerato impossibile».
Sa che già si parla di lei per altre squadre? E’ una prospettiva che lei coltiva?
«Io mi tengo lontano dal consueto tourbillon di questo periodo di ogni campionato. Mi sento un allenatore realizzato, perché alleno nella mia città, perché sono laziale e sono tifoso e quindi so che alla mia gente, arrivando in finale dopo aver sconfitto la Roma, ho dato molto. Ma è più giusto dire abbiamo dato molto, perché senza i miei giocatori e senza il mio staff io da solo non avrei fatto nulla. Tutti assieme abbiamo fatto grandissime cose, poi per quello che sarà il futuro vedremo. Per me allenare la Lazio è il massimo, poi nella vita non si sa mai».
C’è un giocatore che le piacerebbe avere di altre squadre italiane o straniere?
«Ce ne sono tanti. A me personalmente piace tanto Hamsik del Napoli. E’ un giocatore completo, forse, in questo, il migliore che ci sia in Italia».
Nella Primavera c’è qualcuno di forte?
«Rossi, che ho fatto esordire, e che ha tutto per diventare un grandissimo centravanti. Ha fisico, ha tigna, ha senso del gol. Secondo me, facendo le tappe giuste, potrà diventare un centravanti importante a livello nazionale».
Come è allenare avendo Lotito presidente?
«Io di Lotito posso solo parlare bene perché è un presidente che vuole sapere tutto che, come è giusto che sia, chiama, vuole essere relazionato. Chiama tutti i giorni, ma non si è mai permesso di andare oltre le righe, di dare un parere che invadesse altrui responsabilità. Lui è un conoscitore di calcio. Inizialmente qualcuno aveva detto che lui non era dell’ambiente. Invece è una persona che sa di vita e sa pure di calcio. E rispetta il lavoro e le responsabilità altrui».
Quanto le è piaciuto rivedere le curve senza le barriere?
«E’ stato bellissimo. Poi sono stato contento perché vedere due curve così all’ingresso in campo è stato emozionante per me, figuriamoci per i giocatori».
Pippo come vive questa sua esperienza? Anche lui sta facendo benissimo…
«Abbiamo sempre un grandissimo rapporto. E’ contento per me. Ma il più bravo secondo me tra i due è stato lui, perché dopo venticinque anni di professionismo tra Milan e Juventus, non so se un’altra persona avrebbe avuto l’umiltà di mettersi in gioco andando ad allenare in Lega Pro».
A luglio la Lazio aveva undici abbonamenti. Abbiamo visto, nelle ultime partite, di nuovo l’Olimpico quasi pieno. Quello è il frutto del suo lavoro? E del lavoro della società e della squadra ovviamente…
«E’ la più grande soddisfazione che ho dentro di me. La prima partita da allenatore in serie A è stata a Palermo in trasferta, dove abbiamo vinto 3 a 0. Ma la prima in casa è stata con l’Empoli, ero molto contento di allenare all’Olimpico però vedere la curva vuota, vedere settemila persone allo stadio, mi diede un gran dolore, come un circo vuoto. A meno di un anno di distanza vedere una curva come l’altra sera è stato per me motivo di grande orgoglio. E’ stata la più grande soddisfazione, forse ancora di più di vincere un derby. Insomma aver riportato la gente allo stadio, per me, è stata la più grande vittoria di quest’anno».
Un ricordo di Mirko Fersini?
«Mentre le sto parlando sono qui al campo della Lazio: “Con il tuo sorriso e la nostra vittoria”, c’è sempre un’immagine bellissima di Mirko. Lui è sempre qui con noi: allenavo la Primavera e c’era il suo quadro al primo piano qui a Formello. Adesso, allenando la prima squadra, c’è il campo principale dedicato a Mirko Fersini. Mi manca. Da lassù ci sarà sempre vicino, perché era un ragazzo meraviglioso che ingiustamente è venuto a mancare troppo presto. Forse, come ho fatto esordire tanti giovani, avrei chiesto anche a lui di scendere in campo nella prima squadra. Perché era un talento e aveva delle grandissime potenzialità».
Se lei dovesse portarsi su un’isola deserta una maglietta della sua lunga carriera quale porterebbe?
«Me ne porterei due: quella del Piacenza con cui ho esordito in serie A e quella biancazzurra. Ma se poi dovessi portarne una sola, sceglierei la maglia col numero 21 della Lazio con cui ho vinto lo scudetto. Giorni bellissimi, forse inaspettati. Perché nel calcio, non dimentichiamolo mai, tutto può sempre succedere».