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Nesta: «Mio padre fissato con la Lazio. Allenerei la Roma? Dico che…»

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Alessandro Nesta è tornato a parlare della sua carriera, in una lunga intervista per Sportweek. Dalla Lazio al Milan: ecco le sue parole

Alessandro Nesta è tornato a parlare della sua carriera. L’ex difensore di Lazio e Milan è attualmente a Roma per un progetto con Adidas e Calciosociale: una scuola calcio al quartiere Corviale per promuovere lo sport nelle periferie. Poi si è raccontato in una lunga intervista per Sportweek:

INIZI IN PERIFERIA – «Sono cresciuto in un posto simile. Ai ragazzi del Corviale ho spiegato che io sono partito da una zona come la loro, un rione non facile, ma dal quale sono uscito con grandi sogni, grandi ambizioni e grandi sacrifici. Senza cercare scuse».

MOTIVAZIONI – «Chi nasce in periferia ha spesso la tendenza a considerarsi svantaggiato.Invece ha un’arma in più rispetto agli altri: la furbizia. La strada ti sveglia, ti insegna a vivere. Soprattutto, le motivazioni di chi arriva dal Corviale o da Cinecittà, il mio quartiere, sono superiori a quelle che può avere mio figlio, che è nato fortunato. Sono andato al Corviale per dire: ce la potete fare anche voi. Se non a diventare campioni, a costruirvi al meno un futuro dignitoso».

PADRE – «Pensavo solo al calcio. Quando stavo da solo, fantasticavo di giocare all’Olimpico. Quando mio padre mi comprava gli scarpini nuovi, dormivo tenendoli ai piedi per sformarli. Mio padre era fissato col calcio, ma soprattutto con la Lazio. A Cinecittà, quartiere romanista, stavamo in un palazzo gigante, c’erano forse 300 famiglie, eppure ci conoscevano tutti: eravamo i Nesta, i laziali. Mio fratello aveva un problema ai piedi, il dottore dice: sarebbe bene che facesse sport. Papà risponde: calcio. Io piango: voglio farlo anch’io! Ho cominciato così. Dopo due anni Fernando ha smesso. Rispetto a me
lui è un po’ più “artista”. Io invece a 8 anni ero alla Lazio».

ROMA – «Giocavo nel Cinecittà, affiliato alla Roma.Venni notato. Ma proprio quando sarei dovuto andare mio padre lesse che la Lazio organizzava provini per bambini della mia età e mi portò».

TOTTI – «Eravamo in buonissimi rapporti, ma fuori dal campo. Dentro, abbiamo pure litigato. Una
volta, col Milan, saltando gli tirai una ginocchiata nella schiena, un’altra volta ci tirammo la maglia, ma eravamo ragazzini, ignorantacci. Siamo amici, ci sentiamo, ma a Roma è inaccettabile che un laziale e un romanista prendano un caffè insieme. A Milano andavo a cena con Materazzi, Favalli. Allenerei la Roma? Se rispondo no, faccio brutta figura come professionista. Se rispondo sì, m’aspettano fuori…».

ROMA CITTÀ – «È una città stanca, trascurata. Una città così grande, se non la curi in continuazione, diventa impossibile recuperarla. Per il resto è sempre la stessa: il taxi col gagliardetto della Lazio o della Roma, il tassista che ti riconosce e dice: “c’ho il figlio che è un fenomeno…”. Una volta uno, romanista, mi riconosce e mi fa: ahò, vabbè, te porto…».

RIMPIANTI DA ALLENATORE – «Di non essere andato via da Frosinone dopo la finale dei play off di B persa con lo Spezia due anni fa. Ero cotto: avevo la famiglia in America, ero da tre anni lontano dai miei figli, e la squadra aveva già dato il massimo. Un allenatore deve capire quando un ciclo è finito ed è il momento di andare. Mi sento più vicino a Sarri o Mourinho? A Sarri, per l’idea di gioco».

 

 

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