2014

Pulici: “Le pistole c’erano, ma era un vizio puerile e una mania innocente”

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Felice Pulici, a Il Fatto Quotidiano, ha raccontato la sua storia. L’ex portiere della Lazio vincitrice dello scudetto del ’74, ricorda i momenti che lo hanno portato alla capitale confermando un legame indissolubile con i colori biancocelesti.

“L’anno prima, a Novara, ero stato il portiere più battuto della serie B. A Roma mi sentivo di passaggio. Dopo il mercato estivo scrissi a mia moglie. Una lettera, la prima della mia vita, per consigliarle di portare a Sud un bagaglio leggero. Ero convinto che mi avrebbero venduto. È rimasto tutto. La memoria è selettiva. È un affare strano. Ci sono cose che non si possono dimenticare. Mi ricordo come se fosse oggi l’odore dei mobili della Pensione Paisiello dove finii a dormire all’inizio della mia avventura e il giorno dello scudetto. Rientro faticosamente nella pancia dello stadio e mi dicono che è nato mio figlio Gabriele. Scoppio a piangere e corro a vestirmi per raggiungere mia moglie. Quella domenica, Gigi Martini si era rotto la clavicola. Da tempo, per ragioni scaramantiche, ci scambiavamo gli armadietti e nella corsa all’Ospedale San Giacomo, gli infermieri avevano preso le mie scarpe al posto delle sue. Roma era nel delirio, così, vedendomi perduto, salii sull’ultima ambulanza disponibile e puntai il San Giacomo. Sostituii i mocassini e incontrai Ziaco, il medico sociale: ‘Che bravo ragazzo che sei, Felice. Sei l’unico che sia venuto a salutare Gigi, ti fa onore’”.

Lo scudetto fu un miracolo. Nello spogliatoio eravate divisi in due fazioni.
C’era competizione e umanamente il gruppo aveva molte anime, ma Maestrelli sul punto era stato chiaro: “Quella Lazio non mi hai messo in difficoltà”. Ci picchiavamo durante gli allenamenti perché ognuno voleva essere più bravo dell’altro. La vera partita, quella che contava, veniva giocata durante la settimana. Erano botte serie.

L’aneddotica è sterminata.
Duelli veri. Io capivo ma partecipavo distrattamente. Il portiere è un ruolo particolare. Devi gestire le energie nervose. E io sapevo bene quante potevo spenderne davvero. Così a Tor di Quinto, la nostra casa durante la settimana, nessuno mi voleva con sé nelle sfide in famiglia perché riuscivo a concentrami solo se la gara era ufficiale.

Quell’anno lei fu il portiere meno battuto della serie A.
Il portiere tappa i buchi. Il nostro non rappresentò uno scudetto preparato, ma fu un’assoluta sorpresa. Giovavamo un calcio bellissimo, a tutto campo, antitetico al verbo di Rocco o di Trapattoni e anticipatorio della sinfonia che l’Olanda suonò tra gli applausi ai Mondiali del ’74.

Pulici, il portiere senza guanti.
Non servivano a nulla, quando pioveva li compravo di lana. All’Upim. Neri. Costavano mille lire Con il campo pesante erano perfetti. E perfetta era anche quella Lazio. Nonostante i caratteri era un gruppo unito. Direi coeso se il termine non fosse stato già appaltato da Lotito. Lenzini era un presidente diverso. Un padre. Un fenomeno. Prevedeva una cosa e quella, per magia, si avverava. “Sarete Campioni d’Italia”. Aveva ragione.

Quando Chinaglia parte per l’America e lascia la Lazio le scrive una bella lettera.
Si firmava Chinaglione vostro. Giorgio aveva cuore, generosità, scatti d’ira e inattesa saggezza. È stato la Lazio e la Lazio è stata sua. Viveva la partita come nessuno. Dava tutto. Al ritorno dallo stadio, sul pullman, era esangue. A metà strada, per evitare svenimenti, dovevamo sempre fermarci ed entrare in un bar per fare spese. Per
rifocillarlo.

In quella Lazio c’erano davvero anche passioni politiche e pistole?
Io ero democristiano. Fanfaniano. La squadra pendeva a destra senza particolare enfasi. Le pistole sì, c’erano. Il mio compagno di stanza, Petrelli, era l’armiere della squadra. Ma era un vizio puerile, una mania innocente. Con quello che accadde anni dopo a Luciano Re Cecconi, gli spari ai lampioni dell’Hotel Americana, non c’entravano nulla.

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