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Lulic: «Coppa Italia 2013? Non c’è rivincita! Sul 71 dico questo»
Senad Lulic, eroe della finale di Coppa Italia del 26 maggio 2013 contro la Roma, ha raccontato le emozioni di quel giorno
Senad Lulic, ex Lazio ed eroe della finale di Coppa Italia del 2013 contro la Roma, si racconta nel libro “26 maggio, tutta la storia del derby dei derby” di Fabio Argentini:
VIGILIA – Il giorno prima dissi al massaggiatore Papola: domani ci penso io. Torno spesso a Roma. E ancora dopo dieci anni il tempo non sembra essere passato. Quando vado al bar, a un ristorante o al parco giochi con i miei figli continuo a essere fermato per una foto, un autografo o solo per un ringraziamento. Questo affetto della gente è straordinario, e racconta esattamente cosa ha rappresentato quel derby per questa città. Nel tempo, proprio grazie a questo affetto ho potuto capire l’importanza di questa partita. È vero che appena arrivato a Roma ti fermavano per chiederti di vincere soprattutto contro la Roma. È vero che l’atmosfera prima della finalissima era carica di tensione: la avvertivi durante le partite, a Formello, attraverso i compagni che erano da più tempo a Roma. Ma quello che abbiamo fatto conquistando quella Coppa Italia l’ho capito davvero nei mesi seguenti. Io vengo dalla cultura della fatica, dalla povertà, dalla guerra che ho vissuto quando ero bambino. Per me essere ancora oggi circondato da tanto affetto equivale ad aver vinto una sfida importante, come uomo e come calciatore. Mia moglie Sandra e io ce lo diciamo spesso: siamo cresciuti insieme, siamo arrivati in Italia insieme e insieme abbiamo vissuto questo affetto. Sappiamo di aver fatto il nostro percorso e di aver largamente otte- nuto quel che sognavamo. Quando si giocò quel derby mia moglie Sandra stava aspettando la nostra prima figlia, Lea. Poi sono arrivati Lian e Luca. Quel che chiedevo alla vita è arrivato
TIFOSI – A sottolineare l’importanza del derby in finale era la gente. E con la gente anche i giocatori che erano qui da più tempo e avevano vissuto momenti esaltanti e giorni difficili in una piazza che il derby lo voleva sempre vincere, figuriamoci in una finale storica. Ma in uno spogliatoio ci sono tante figure, magari non conosciute dal grande pubblico, che fanno parte del gruppo e che spesso di quel gruppo fanno le fortune. Lo staff sanitario, l’ufficio stampa, i cuochi, i magazzinieri, i massaggiatori… Molti di quei ragazzi sono romani e il derby se lo sentono dentro da sempre. Ti trasmettono le loro preoccupazioni, ti spingono a vincere, ti aiutano a capire. E così, il giorno prima della partita, men- tre stavo facendo un massaggio, dissi a Romano Papola, uno degli storici fisioterapisti: «Non ti preoccupare, domani ci penso io». Sapevo che potevamo farcela. Dopo la partita, durante i festeggiamenti, l’ho abbracciato in campo e gli ho detto: «Hai visto? Ci ho pensato io». Ma era solo una battuta. Ero ben consapevole che ci avevamo pensa- to tutti. Giocatori e staff. Quella partita l’abbiamo vinta insieme: perché volevamo vincerla. Tutti
GOL – Il gol, ovviamente, l’ho rivisto molte volte, in tv e nella mia mente. Nel mio ruolo devo sempre entrare in area quando l’azione si sviluppa dal lato opposto. Al cross teso di Candreva, due secondi prima ho capito, ho frenato la corsa e mi sono coordinato. Tutto in un attimo, e anche tanta fortuna. Istintivamente ho iniziato a correre verso la panchina. Quel giorno qualcuno di noi doveva segnare. È toccato a me, ma è la squadra che ha vinto. Abbiamo vinto come collettivo, abbiamo costruito insieme questa vittoria, dall’allenatore ai giovani della Primavera in panchina. Non potevo non condividere quel gol insieme a tutti i miei compagni. Quella notte è stata un susseguirsi di emozioni in- credibili. Dal prepartita al gol, dai minuti finali che sembravano un’eternità al fischio finale, fino alla gioia nostra e dei nostri tifosi. Per un calciatore non c’è nulla di più bello di una serata così
ESULTANZA – Quella corsa verso la panchina era anche un ringraziamento a tutti i miei compagni. Sono arrivato alla Lazio a 25 anni e ho imparato molto dai gioca- tori più esperti, umanamente e professionalmente. Insegnamenti quotidiani che sono stati fondamentali e che ho restituito quando ho avuto il privilegio di indossare la fascia di capitano. Quella era una Lazio con tanti leader: Scaloni, per esempio, che infatti oggi è l’allenatore della Nazionale campione del mondo. E poi gente come Biava, Brocchi, Rocchi, Cana, Klose. Con Miro oggi siamo “vicini di casa” in Austria. Lui allena lo Sportclub Rheindorf Altach in Austria dove vivo anch’io. Appena possiamo ci vediamo con le famiglie e anche lui ogni tanto torna a Roma, che gli è rimasta nel cuore. Ho un grande rapporto con lui. È un ragazzo semplice come me e per questo ci troviamo bene. Un lavoratore, sempre con i piedi per terra. Credo che gli uomini veri delle generazioni precedenti abbiano qualcosa in più rispetto a molti giovani di oggi
NUMERO 71 – Dopo quella rete sono stati in molti a chiedermi di cambiare il numero di maglia e indossare il 71, il minuto del gol. Ho detto di no, per vari motivi. Il primo perché il 19 è stato il mio numero da sem- pre: al Bellinzona, allo Young Boys e poi alla Lazio. C’ero affezionato e mi aveva portato fortuna, an- che in quel derby. Poi perché, per carattere, non faccio scelte volute da altri. E infine anche per una questione di rispetto nei confronti dell’avversario sconfitto. Un rispetto che, a dire il vero, non ho sentito reciproco: nei giorni brutti in cui subii l’infortunio al dito e rischiai di perderlo vidi in tv lo striscione “Non c’è ricrescita” a imitazione del motto della curva laziale “Non c’è rivincita”. Mi è dispiaciuto e non mi sembrava fosse giusto proprio perché io non ho mai fatto nulla di provocatorio, e ci mancherebbe. Avrei potuto indossare il 71 e prenderli in giro per tutta la vita, ma non ho voluto farlo. Quando tornai in campo a Bologna, rispondendo a una domanda sul tema degli sfottò dei romanisti dissi in conferenza stampa: «C’è ricrescita ma non rivincita». Quella volta ci stava tutta: ma in assoluto il rispetto per l’avversario sconfitto è per me la prima cosa
RETROSCENA PORTIERE DI CASA – Abitavo al Quartiere Fleming, a Piazza Filippo Carli. Il giorno seguente non ero a casa, ero già partito. Mi ricordo la telefonata del portiere del condominio: «Senad, qui fuori ci sono un sacco di tifosi. Aspettano che scendi…». Da quel giorno in ogni occasione ho sentito l’amore dei tifosi. Non sapranno mai quanto li porti nel cuore e quanto sia orgoglioso di fare parte della storia di questa gloriosa società