2015

Signori compie oggi 47 anni: “Il mio legame con la Lazio non si spezzerà mai. Scommesse? Non ho fatto nulla di illegale”

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Compie oggi 47 anni Beppe Signori, attaccante entrato nella storia biancoceleste negli anni’90 e mai dimenticato dalla piazza. Signori è stato intervistato in esclusiva da sslaziofans.it parlando della sua carriera. “Se vado a rivivere tutta la carriera, partendo dalla gioventù, la mia è stata fin dall’inizio una storia molto particolare. Giocavo nella squadretta del mio paese, ad Alzano Lombardo, poi a 10 anni mi ha preso l’Atalanta ma io ho rifiutato di andare a giocare a Bergamo e ho fatto bene: perché poi sono finito nelle giovanili dell’Inter, dove sono rimasto fino a 15 anni. Fino a quando, un giorno, arriva Mariolino Corso, che è stato una leggenda del calcio italiano e dell’Inter e mi dice: “Guarda, sei bravo tecnicamente, ma sei fisicamente il più piccolo di tutti i tuoi coetanei e, con quell’altezza, non puoi andare da nessuna parte. Non sei un giocatore professionista in prospettiva, quindi ti ridiamo il cartellino e puoi scegliere liberamente la squadra dove vuoi andare”. Una bocciatura del genere ti segna, molto, perché a quell’età una cosa detta da un grande per te è Vangelo. Figuriamoci poi se, parlando di calcio, te la dice uno che ha vinto Coppa dei Campioni, scudetti e indossato la maglia della Nazionale. Quindi pensi che non ce la farai mai, che ti dovrai accontentare di vedere il calcio vero solo da spettatore, allo stadio o in Tv. Ma ho deciso comunque di non arrendermi e sono andato a giocare nel Leffe, ripartendo praticamente da zero. Senza una vetrina e con quella bocciatura da parte di Mario Corso sulle spalle, sono dovuto partire dall’Interregionale, dove ho iniziato la lenta scalata: C2, poi la C1 con Piacenza e Trento, poi la B con il Piacenza e, a quel punto, ho avuto la mia grande occasione a Foggia, grazie a Zeman, a ventidue anni. Se mi confronto con quelli che hanno sfondato e sono arrivati ad altissimi livelli, solo Pippo Inzaghi ha fatto una carriera simile alla mia, partendo dai Dilettanti per poi arrivare in Nazionale, dopo aver giocato in tutte le categorie. Questo da un lato mi ha reso più forte e mi ha fatto maturare senza grandi pressioni, ma mi ha fatto perdere anni preziosi. Però, come in tutte le cose della vita, non c’è la controprova, quindi non è detto che restando all’Inter le cose sarebbero andate in modo diverso. Perché, magari, non avrei mai incontrato Zeman e non sarei mai diventato Beppe Signori, il Beppe-gol che ha vinto tre volte la classifica dei cannonieri con la maglia della Lazio. E, se devo dirla tutta, mi dispiace per Mariolino Corso, ma senza quel fisico non sarei mai stato quello che sono stato: ovvero, il Beppe Signori imprendibile per quasi tutti i difensori dell’epoca”.

Sul suo arrivo alla Lazio:

Ricordo che appena mi sono presentato a Roma, la prima domanda che mi ha fatto un giornalista in conferenza stampa è stata: “Lo sai che sei stato acquistato per sostituire un giocatore importante, un idolo come Rubén Sosa, che ha fatto 40 gol in 4 anni? Pensi di riuscire a reggere il confronto e di non far rimpiangere la sua partenza?”. Io, forse per incoscienza o per reazione, ho risposto: ‘Veramente io sono venuto per fare meglio’. E qualcuno mi ha preso subito per matto o per sbruffone. Ma io ci credevo, anche se quelle cifre mi spaventavano, perché venivo da una sola stagione di Serie A con 11 gol segnati, ma in un’altra realtà, in un altro contesto sia ambientale che calcistico. E mi metteva i brividi anche solo pensare di dover segnare almeno 10 gol all’anno non a Foggia ma a Roma; giocare non davanti ai 20.000 dello Zaccheria ma davanti ai 60-70.000 dell’Olimpico. Con l’avversario nel derby che non si chiama più Bari o Lecce, ma Roma: con il derby che dura 365 giorni all’anno. Per giunta, in una squadra ambiziosa, guidata da un presidente che ha speso quasi 100 miliardi di lire in 18 mesi perché vuole vincere. Tutte queste pressioni ti possono schiacciare, ma non mi sono mai pentito di aver detto quella frase, perché di gol ne ho fatti addirittura 49 in due anni e solo in campionato. E questo perché, grazie a Zoff, ho potuto giocare più vicino alla porta. Ma anche perché, grazie a Zeman, ho preso consapevolezza del fatto che non dovevo pormi dei limiti, ma semmai lottare per spostare sempre più avanti il limite”.

Poi, il ricordo dei tifosi biancocelesti e la protesta per evitare il suo trasferimento al Parma nel 1995:

La mia è stata la prima e forse l’ultima storia di un giocatore già venduto che invece non è andato via, perché ormai queste cose non succedono più. Non l’ho vissuta in prima persona quella vicenda, perché io stavo in tournée in Brasile con la squadra, ma mi è arrivato tutto e soprattutto ho visto le immagini di quelle migliaia di persone scese in piazza per far saltare il mio trasferimento al Parma. E questa è la dimostrazione che in quel momento la gente laziale si identificava in me e nella mia voglia di lottare e di vincere. Di quello che rappresentava per i tifosi laziali il Beppe Signori giocatore. Potevano vendere tutti in quel momento, ma non me. Devo essere sincero, se non fosse successo nulla probabilmente avrei accettato il trasferimento al Parma, ma quando ho visto quelle scene sono stato il primo a dire: “No, io resto alla Lazio”. E ho ripagato tutti a modo mio, a suon di gol. A Roma mi sono sentito veramente un Re, perché con la maglia della Lazio mi sono preso le più grandi soddisfazioni della mia carriera vincendo per tre volte, nell’arco di quattro anni, il titolo di capocannoniere del campionato. E, a prescindere da quella corona che mi hanno messo materialmente in testa, la gente laziale mi ha fatto sentire veramente un Re: per l’affetto che mi ha regalato, per le dimostrazioni che mi ha dato tutti i giorni che ho vissuto in quella città. Vedevo tantissimi bambini che giravano indossando con orgoglio la mia maglia numero 11 con scritto Signori sulle spalle; e, ancora oggi, in tanti mi dicono o mi scrivono che sono diventati laziali o che si sono innamorati perdutamente della Lazio grazie a me, alle imprese di quella squadra e ai gol che ho segnato. E questo mi riempie d’orgoglio, perché è un qualcosa che niente e nessuno potrà mai cancellare. Ripensando ora a quegli anni e a quello che hanno fatto per me i tifosi laziali, specie in questi ultimi 36 mesi, mi viene un groppo alla gola. Sai, quando giochi e sei costantemente sotto la luce dei riflettori e al centro dell’attenzione, quasi non ti rendi conto di quello che succede intorno a te; mentre è proprio nel momento in cui smetti, in cui cala il sipario e si spengono le luci che ti rendi conti di quello che hai fatto, di quello che hai seminato: dell’affetto della gente, di quanto ti ha amato questa città e di quanto ti ama ancora la gente laziale. L’ho capito definitivamente la sera del 12 maggio quando, nonostante la presenza di tanti campioni che hanno vinto e hanno alzato al cielo trofei su trofei, la gente mi ha fatto sentire veramente e nuovamente un Re. Ecco, quella sera, durante quel giro di campo, vedendo quelle facce e sentendo il mio nome scandito da decine di migliaia di persone, tra le quali c’erano tifosi che probabilmente non mi avevano mai visto giocare con la maglia della Lazio, ho capito quanto è forte il legame con questa gente e questa squadra. Anche quella sera ho visto tante magliette celesti con quello sponsor “Banca di Roma” e il numero 11 blu stampato sulle spalle, ed è stata un’emozione difficile da descrivere. Sono uscito stravolto dal campo: e non per la fatica fisica o per i chili accumulati nel corso degli anni ma perché, all’improvviso, mi sono sentito sulle spalle il peso di quell’amore e sulla testa quello di quella corona. Io, finché ho indossato quella maglia, ho cercato di ricambiare la gente nell’unico modo che conoscevo, ovvero con le prestazioni in campo e segnando gol su gol. Ma, in fin dei conti, quello era il mio lavoro, ero pagato e pure bene per farlo. Quindi sono, e mi sento, in debito con tutti, perché essere riconosciuto ancora oggi come il capitano e il leader di quella Lazio, è una soddisfazione immensa. Perché non l’ho capito mentre le stavo vivendo quelle sensazioni, l’ho capito solo ora che è tutto finito, consegnato alla storia. La cosa assurda è che, più passa il tempo, e meglio capisci. E ti rendi conto di esser stato un punto di riferimento di un’intera generazione”.

L’addio alla Lazio ?:

Ho detto basta in una notte di pioggia, in macchina con un amico. Saranno state le 3 di notte, eravamo appena sbarcati all’aeroporto di ritorno dalla trasferta di Coppa Uefa di Vienna e, a metà tragitto gli dico: “Portami a Formello invece che a casa”. Lui non ha detto nulla, ha capito e siamo andati a Formello. Sono sceso, ho percorso quel corridoio che porta dal parcheggio interno agli spogliatoi in silenzio, sono entrato in quello stanzone per l’ultima volta, ho preso tutte le mie cose svuotando l’armadietto e, appena salito in macchina, ho chiamato Cragnotti. Gli ho comunicato che stavo uscendo per l’ultima volta da Formello e gli ho chiesto, anzi l’ho scongiurato, di trovare in fretta una soluzione, perché volevo andare via il prima possibile da Roma. “Io qui non ci voglio più stare”, gli ho detto, “non perché io non sto più bene alla Lazio, perché non ho più l’affetto della gente o perché non mi trovo bene con i compagni di squadra o la società, ma solo perché con l’allenatore il rapporto non è mai sbocciato e io con quella persona non voglio avere più nulla a che fare. Quindi, preferisco andare via io piuttosto che fare casino”. Era impossibile coesistere. Della serie o me o lui. Ma io non sono così meschino, non lavoro per fare le scarpe a qualcuno anche se ho la possibilità di portarmi dietro molti compagni oppure la piazza. Non l’ho mai fatto. E tantomeno lo avrei fatto alla Lazio: sarebbe stato scorretto nei confronti di Cragnotti, della società, della gente. Mi sono detto: “Non posso essere io a rompere il giocattolo”. Quindi, ho scelto di smettere di giocare… con la Lazio. Lui ha ascoltato, ha capito, tanto è vero che non ha neanche provato a convincermi a ripensarci o a dormirci sopra. Mi ha detto solo “va bene” e il giorno dopo mi ha ceduto in prestito alla Sampdoria. Rinunciando a tanti, tantissimi soldi. È sempre stato un vero signore Cragnotti, un personaggio straordinario”.

Sulle vicende relative al calcioscommesse che lo hanno coinvolto successivamente:

Nella vita se sei colpevole è giusto che paghi gli errori che hai fatto. E io gli errori che ho commesso li ho sempre ammessi e li ho pagati sulla mia pelle. Come quello con Sacchi a Usa ’94 che mi ha tolto la possibilità di giocare una finale mondiale, oppure come la rottura con Eriksson che ha portato alla fine della mia storia con la Lazio. Ma in questa vicenda io non c’entro. Non ho fatto nulla di male, di sporco o di illegale. Non ho mai ricevuto, o dato, né soldi né assegni a qualche calciatore o ai personaggi indicati come miei complici. Scommettere non è reato, lo Stato ci campa e ci lucra sulle scommesse. E io ho sempre fatto scommesse legali. È illegale scommettere con amici e compagni sul fatto di riuscire a mangiare un Buondì Motta in 30 passi? È illegale scommettere soldi propri sui risultati delle partite? No. Lo è, al limite, se sei un tesserato, ma io in quel momento non ero un tesserato. Però mi hanno sottoposto lo stesso ad un processo sportivo e mi hanno squalificato per cinque anni. Ma sulla base di cosa? Quali sono le prove? Perché se hanno le prove per farmi fare 15 giorni di arresti domiciliari poi ho dovuto aspettare tre anni e mezzo prima del rinvio a giudizio deciso la settimana scorsa dal Gip? Ma che giustizia è questa? E soprattutto chi me li ridà quei 15 giorni e chi mi ripaga per tutta la merda che mi hanno tirato addosso? Nessuno. Per ora. Magari li lascerò in eredità ai miei figli quei soldi, oppure li darò in beneficienza, ma chi ha sbagliato deve pagare. Come avrei pagato io se fossi stato colpevole. In due giorni hanno cancellato quasi 30 anni di carriera. Mi hanno massacrato senza darmi la possibilità di reagire, di difendermi in qualche modo. E, quello che mi ha fatto stare male, è stato il fatto di non poter dare a tutti subito la mia versione, di dimostrare immediatamente che io non c’entravo nulla con questa storia. Il non poter rispondere alle tante falsità che sono state scritte sul mio conto, da gente che sembrava quasi che provasse gusto a tirarmi fango addosso, a distruggere la mia immagine. Come quando, dopo una rivoluzione, la gente abbatte le statue del dittatore appena deposto per sfogarsi. Ma in quei casi è comprensibile, nel mio no, perché io non ho mai fatto del male a nessuno. Nella mia carriera non ho mai fatto polemiche, ho sempre rispettato tutti, quindi mi sono trovato impreparato davanti a tanta cattiveria”.

Infine, sulla serata del 12 maggio scorso “Di Padre in figlio” all’Olimpico:

Ho accettato con qualche timore l’invito per quella serata, perché negli ultimi anni c’era stata qualche incomprensione con l’ambiente laziale e perché non sapevo come mi avrebbe accolto la gente dopo quella vicenda. Sai, un conto è andare ad una cena, in un ambiente che sai che è amico, un conto è entrare in uno stadio davanti a quasi 70.000 persone. Sai che sono tutti laziali, sai che in molti ti hanno amato, ma la paura e la tensione c’è. Sempre. Invece, quando è partito quel coro “E segna sempre lui, e segna sempre lui, si chiama Beppe Signori, si chiama Beppe Signori…”, be’, in quel momento avrei voluto abbracciare tutti quelli che stavano sugli spalti, uno per uno. Ero stravolto dall’emozione, mai provato nulla del genere in tutta la mia vita, te lo assicuro. Questa è gente fantastica, i tifosi della Lazio sono veramente unici e non lo dico per arruffianarmi qualcuno, come non volevo offendere nessuno quando ho detto che i tifosi della Roma erano di più. Quella frase è stata strumentalizzata ad arte, ma è roba passata. Ormai il rapporto è stato riallacciato e quel filo invisibile che mi lega a questa città, alla Lazio e ai tifosi, non si spezzerà. Mai.”

 

 

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