2014
Stefano Re Cecconi racconta suo padre Luciano: “Il mio sogno? Vedere con lui una partita della Lazio”
Il risveglio del 18 gennaio? “E’ un risveglio pieno di dispiacere, di amarezza. Ho perso papà che avevo due anni. Mi è mancato in diverse età: quando ero bambino e magari lo avrei cercato per giocarci un po’ . Per andare insieme nel parco o a fare una passeggiata. Mi è mancato nella fase dell’adolescenza. Mi è mancato nelle feste, nelle ricorrenze. Mi manca oggi, nonostante abbia quasi quarant’anni”. Queste le prime parole rilasciate al portale novegennaiomillenovecento da Stefano Re Cecconi oggi nella ricorrenza del trentasettesimo anniversario dalla morte dell’indimenticabile Luciano Re Cecconi, centrocampista della Lazio di Maestrelli, di quella Lazio che vinse il primo scudetto della sua storia. Quando Luciano scomparve all’età di ventotto anni Stefano di anni ne aveva solamente due e la sorella Francesca era ancora nella pancia della mamma. Grazie allo zio Piero però ha potuto conoscere suo padre dalle decine di foto, copertine, articoli, ha scritto un libro, raccolto storie e aneddoti.
“Credo di aver capito che nella vita c’e’ sempre un ultimo minuto. Papà aveva sognato ad occhi aperti di sfondare. Lavorava in carrozzeria e la sera si andava ad allenare. Sognava di sfondare, in modo genuino, magari di diventare un giocatore dell’Inter che, in quegli anni, era un po’ la malattia di casa. Poi la Pro Patria, il calcio che non resta solo divertimento ma si consolida. L’incontro con Carlo Regalia, a Busto Arsizio: e’ stato lui a trasmettergli il modo più giusto per diventare un grande calciatore. Album di foto, documentazioni di amici, racconti: da tutto emerge che papà ha vissuto la sua vita come se fosse sempre un ultimo minuto. Soffrendo, inseguendo il risultato. Come quel pomeriggio di fine dicembre contro il Milan, in una partita che pareva stregata. Il passaggio filtrante di Frustalupi, lui che si insinua e trova l’angolo giusto. Felice mi ha sempre detto che mai, da quel giorno, ha riascoltato all’Olimpico il boato che accompagno’ quel gol”.
Tante le foto che Stefano cerca di rimettere insieme per ricostruire l’immagine di un padre che quasi non ha mai conosciuto, “Non c’è una foto alla quale io sia particolarmente legato, mi piacciono molto le foto che ritraevano la mia famiglia nella vita di casa…”.
Un padre cercato nei ricordi, nelle immagini, che lo ha spinto a trasferirsi a Roma, “Mia mamma non ci ha fatto crescere alimentando sentimenti di odio o rancore. Mai abbiamo avuto un atteggiamento ostile. Ma sulla storia di papà, sulle modalità della sua morte, si è aperto uno squarcio, come il libro di Maurizio Martucci ha cercato di dimostrare. E’ stata una vicenda poco chiara che, da figlio, avevo l’obbligo di sviscerare; mia sorella ha il carattere di mio padre, è riflessiva come lo era lui, io invece sono più esuberante”.
Luciano Re Cecconi aveva trovato la sua consacrazione nella Lazio, in quel gruppo storico allenato da un grande uomo e allenatore Tommaso Maestrelli, quel gruppo che molti definivano “pazzo”, “Eppure, a modo loro, così diversi, si volevano bene. Maestrelli li teneva uniti, certo, ma mai, da allora, la Lazio ha avuto un gruppo di giocatori così amanti alla follia della maglia che indossavano. Quando sono venuto ai funerali di Giorgio, lo scorso settembre, ho incontrato i figli. Ed ho rivisto Connie che fece recapitare, quando nacqui, un completo celeste a mia madre. Ero davanti alla bara di Giorgio, nella Chiesa del Cristo Re, e ripensavo agli anni in cui Chinaglia era presidente. C’era anche Felice in quella società, senza soldi ma ricchissima d’animo e di generosità. Giorgio faceva recapitare ogni anno a casa regali costosissimi per me e mia sorella. Era un modo per farmi sentire papà vicino. Un modo che io e Francesca non abbiamo dimenticato. E Maestrelli, negli anni di Foggia, chiedeva spesso a papà di portare i gemelli, Massimo e Maurizio, al cinema o alle giostre. Sapete Tommaso come lo chiamava? Il Tato. Dove pensate che avrei voluto vivere io se non qui, a contatto con la gente che papà ha amato, ricambiato alla follia?”.
Dice ancora Stefano: “A papà piaceva dilettarsi con i giovani, credo che allenare i ragazzi, dargli una educazione, in campo e fuori avrebbe potuto essere il suo futuro. Aveva chiesto a Lenzini di non cederlo mai, di farlo restare alla Lazio, nonostante Milan e Juventus, soprattutto, avevano fatto recapitare al Presidente offerte importanti. Avrebbe allenato volentieri i ragazzi e avendo avuto un allenatore fantastico, come maestro di calcio e psicologo, come Tommaso credo che sarebbe pure diventato un buon tecnico”
Quando Luciano morì in quel tragico pomeriggio fu per tutto il gruppo biancoceleste come perdere qualcosa di proprio, Lenzini non si riprese più dopo aver dovuto dire addio solo pochi mesi prima a Tommaso, Giorgio tornò in America, poi in serie B ,”Ho sempre pensato che la Lazio abbia avuto lo stesso destino del Grande Torino. Che perse in una tragedia collettiva tutti i suoi eroi a differenza della Lazio che, invece, il pianse uno ad uno” dice ancora Stefano.
Ma Stefano racconta di non aver mi voluto vivere di luce riflessa e di aver preferito andare all’Olimpico, passare per viale dei Gladiatori oppure salire i gradini della Tevere per capire fino in fondo chi era suo padre, “Vedere una maglia celeste che si muove sul prato dell’Olimpico e’ una emozione fortissima. Che rende quasi la maglia della Lazio non barattabile, bella, unica e splendente”.
Il suo sogno, il sogno di un uomo che ha perso il mito che per ogni bambino è il proprio padre, è “Quello di vedere con lui una partita della Lazio, magari su una nuvola immaginaria, sopra la collina di Monte Mario, mordendoci il labbro per il timore di prendere un gol, stretti e felici al momento di segnare una rete”.